"Perchè?" La storia di don Federico
Un viaggio nella categoria del non saputo, del non spiegabile, del mistero.
Quando Don Federico ci ha scritto, ho pensato: “Davvero, un sacerdote?”
Il mio rapporto con la fede è iniziato il giorno in cui è morto mio padre, il 27 Maggio 1998. E’ morto di enfisema, non ha scelto di andarsene, eppure io a navigare qualla morte ci ho messo quasi dieci anni.
Quel giorno ho urlato per la prima volta contro un Dio che non conoscevo, che non c’era, nonostante apparisse in tutte le preghiere che sapevo a memoria, nelle canzoni della domenica, nei gesti e nelle regole con cui ero stata cresciuta.
Perché?
Dove sei adesso?
Come puoi lasciare che mio padre se ne vada?
Pensiamo sempre che le relazioni debbano essere lineari, che abbracciare la fede significhi non avere più dubbi, che parlare con Dio voglia dire non arrabbiarsi e fargli domande, che frequentare la Chiesa significhi aderire alle sue regole in toto.
Quando è arrivata la mail di Don Federico, per la prima volta non ho finito di leggere una storia di Lasae. Ho letto le prime righe, ho chiuso l’account e sono andata a fare una passeggiata.
In Lasae “proviamo a dare strumenti per attraversare la morte”. Cosa manca, allora, a chi ha decide di togliersi la vita?
Cosa porta una persona di 18, 21, 24, 26, 40, 59 anni a saltare da un ponte?
E, infine, con quale forza si impara a star vicino a chi resta dopo la perdita di una persona che la morte l’ha scelta?
Buona lettura
Natalia e il team di Lasae
La storia di don Federico
COSA E’ SUCCESSO?
Sono don Federico, sacerdote della diocesi di Padova, da ormai 17 anni, e da quasi 4 anni svolgo il ministero di cappellano in ospedale ad Asiago, il centro più famoso dell’omonimo altopiano, in provincia di Vicenza.
In questo tempo, tra le tante salme che mi sono trovato a benedire a partire dall’epoca del Covid, alcune sono state più “difficili” da accettare: mi riferisco alle tante morti per suicidio accadute negli anni 2021-2023, dai ponti di Roana e della Val Gadena, nella zona di Foza.
Raccontare quanto è accaduto è entrare un po’ nella categoria del non saputo, del non spiegabile, del mistero:
Ebbene, questa ripetuta esperienza vissuta, specialmente in obitorio dell’ospedale, è diventata oltre che tosta, anche maestra di vita, per me, per il mio ministero, ma, direi ancor di più, della mia umanità…
COSA MI HA AIUTATO?
Pensando a cosa mi ha aiutato a vivere e gestire questi momenti, credo di poter affermare il coraggio della presenza e della delicatezza: in modo particolare verso i familiari, un ascolto totale, guardando i loro occhi, il loro strazio, e, in contemporanea, allargare le braccia per poter lasciar a loro la possibilità di sentire un abbraccio, un contatto che abbattesse la paura di sentirsi soli, abbandonati…
Se mi fosse concesso di ritornare indietro, mi piacerebbe tantissimo poter realizzare un piccolo spazio in cui una persona che si trova con una montagna da superare, e crede di non farcela, possa lì invece trovare qualche attimo di serenità, di pace, di non solitudine e isolamento: il sogno sarebbe ancora più grande, se si potesse entrare nei pensieri delle persone che sono in difficoltà: sarebbe probabilmente più facile trovare qualche “medicina mentale” per ovviare poi ad alcune ricadute devastanti e magari non più recuperabili, come il pensiero che spesso poi arriva a concretizzarsi, del suicidio.
COSA HO IMPARATO
Cosa ho imparato o sto imparando, da tutto ciò? Ogni essere umano è un unicum, qualcosa di talmente grande da non essere perfettamente inquadrabile dentro determinati schemi che mi faccio o ci facciamo.
Il non pretendere di farcela da solo: specialmente di fronte a tragedie come quelle di un suicidio, l bisogno vitale di condividere pensieri, emozioni, pianto, disperazione è fondamentale. Certo, è assai difficile trovare con chi farlo: con chi non conosce o non ha sperimentato ciò, è assai complicato; con chi ha vissuto situazioni del genere, l’empatia sicuramente favorisce di più il confronto, il conforto e il desiderio di creare aiuti ancor più grandi per chi ha da affrontare salite irte come queste.
COME MI HA CAMBIATO E TRASFORMATO LAVORARE CON LA MORTE E LA PERDITA?
Lavorare con la morte e la perdita ha certamente trasformato il mio modo di essere e di vivere: spesso penso che ci sarà anche per me un giorno in cui lascerò questa vita; se da una parte il pensiero fa paura, dall’altra mi chiedo se mi sto preparando a questo “evento”, se mi ritengo pronto…
Infine, il bisogno e il desiderio di condividere costantemente fatiche, pesi, domande a cui non vi è risposta definitiva con chi vive e/o si occupa delle medesime vicende.
Io sono Don Federico Fabris e questa è la mia storia.
Se vuoi contattarmi, mi trovi:
sul mio profilo Istagram: https://www.instagram.com/don.federico.fabris
sul mio profilo Facebook: https://www.facebook.com/irondonfede
Un abbraccio,
Don Federico
Ps. Io sono Natalia Pazzaglia e sono la fondatrice di Lasae. Con me c’è Elena Viotto, che si prende cura del lavoro organizzativo e visuale (e delle grafiche di questa newsletter) e Andrea Martina Zenoni, che si occupa di Instagram. Con Lasae vogliamo fornire strumenti per attraversare la transizione che la perdita di una persona cara comporta. Arianna è la nostra strategist e ci aiuta a guardare sempre più avanti!
Ti va di aiutarci?
Puoi anche farci un regalo (o farlo a qualcun’altro!) facendo una sottoscrizione a pagamento alla nostra newsletter: bastano 7 euro!
Stiamo anche raccogliendo storie per i prossimi contenuti! Se vuoi condividere la tua, mandaci una mail con la tua storia all'indirizzo progetto.lasae@gmail.com. Può essere la storia di chi ha affrontato, si prepara ad affrontare o accompagna qualcuno che sta vivendo una perdita. E non ti perdere la prossima newsletter: abbiamo un regalo in serbo per te!
E se questa newsletter ti è piaciuta e pensi possa essere utile a qualcun’altro, condividila!